Oggi sono inciampato casualmente in una foto di mio figlio di qualche anno fa. Me la sono ritrovata davanti senza quasi volerlo ed ora non faccio che guardarla e riguardarla come uno scemo. Nella foto ha circa due anni. Forse tre. Gli occhi profondi e scuri, le guance paffute, i capelli leggermente mossi. Tutta l’innocenza dell’umanità sembra racchiusa in quello sguardo che chiede solo amore e protezione. Non so nemmeno chi l’abbia scattata. Se mia moglie, i nonni, o addirittura il sottoscritto mentre giocavo con i vari obiettivi della macchina fotografica. Non ricordo quasi nulla di quell’istante, eppure più la osservo e più mi torna in mente tutto il resto. L’odore della pelle, il borotalco dopo i bagnetti, le ninne nanne cantate nei corridoi, le passeggiate fatte assieme al parco. Ecco arrivare alla memoria le prime parole, i sorrisi, i pianti, gli abbracci teneri. Le foto del resto hanno questo potere. Evocare e riportare alla mente ricordi apparentemente perduti. Eppure c’è qualcos’altro che mi afferra e mi tiene ancora bloccato a questa immagine. E’ qualcosa di doloroso perché lo stomaco mi si è improvvisamente chiuso dando spazio a un senso di malinconia e rabbia. Quell’attimo non solo è passato per sempre ma ora mi rendo conto che è scivolato via senza quasi accorgermene. E allora mi chiedo come sia stato possibile. Come ho fatto a farmi sfuggire da sotto il naso tutta quella bellezza e innocenza? Come posso essere stato così superficiale? Forse, e lo dico ovviamente a mia discolpa e per cercare anche di placare questo stato d’animo, non ci si rende mai veramente conto della felicità quando la si incontra, perché si è troppo impegnati nell’attraversarla. Mai fidarsi poi delle foto, abilissime bugiarde. Ci attraggono evocando un mondo lontano e per questo certo più interessante, mentre il presente, ogni giorno a disposizione, finisce per passare quasi inosservato. Del resto le foto, così come in questo caso quella di mio figlio, mostrano solo le verità che noi siamo disposti a concedergli. Quindi, nel mio caso, quello che io voglio accordargli. Non ne esco. Rimango comunque colpevole. Colpevole forse di averla scattata, colpevole ora di arricchirla con i mie pensieri, i dettagli, la mia storia personale. E allora, visto che è tutta colpa mia, tanto vale lasciarsi andare a questa dolce malinconia, che qualcuno definì come il piacere di essere tristi. Tanto vale addentrarsi in questo spicchio di felicità aperto da una foto, perché non sono le cose che ci rendono felici ma, appunto, il modo in cui noi le vediamo.