Lui è Orso. Nel senso che il suo nome è Orso, non è un orso. Gli orsi poi non credo si possano tenere in casa. Per quanto possa sembrare non è nemmeno un tappetino peloso comprato da Ikea. Non è una sciarpa da avvolgersi intorno al collo, e nemmeno un plaid da mettersi sulle gambe per scaldarsi anche se quella è stata la funzione più gettonata prima che accendessero i riscaldamenti. Orso non è, come crede mia moglie Rucola o la nostra Pulce settenne, un pupazzo a loro uso e consumo per sbaciucchiamenti e abbracci e coccole, come non è ovviamente un giocattolo robot riporta palle, come crede invece il decenne Sgnappo.
A dire la verità Orso non è nemmeno un essere umano, come pensa a volte il sottoscritto, il quale ultimamente ha iniziato a parlargli sperando che almeno lui, ossia Orso, comprenda i suoi, ossia i miei, stati umorali e gli dia utili suggerimenti di vita, mentre probabilmente lui, Orso, si starà certo chiedendo se è poi così normale che un essere umano, ossia il sottoscritto, continui a parlargli in quello strano linguaggio.
Quando lo abbiamo preso hanno detto fosse un barboncino teacup, che starebbe a dire una razza così piccola da entrare in una tazza di tè, un tea-cup appunto. Ovviamente non lo è. Molto più probabilmente si rivelerà essere invece un San Bernardo, uno di quei cani delle nevi pronto a salvare vite umane.
Una cosa l’ho capita molto chiaramente. Caca che è una meraviglia. E così se vedete un tipo all’alba con mascherina e occhiali appannati chino sulla strada con una bustina in mano intento a raccogliere il suo, di Orso, copioso lascito quotidiano, mentre sbraita o si lamenta della puzza, dell’orario e del freddo, saprete con certezza che quello sono io.